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domenica 30 ottobre 2011

Giustino Fortunato benestante pessimista




Per essere nato anche io a Rionero in Vulture, nel profondo sud, lo stesso paese di Giustino Fortunato, qualche anno dopo di lui (oggi si ricorda il 150 anniversario della sua nascita 1848)dovrei avere un qualche ricordo, sia pur vago di quel singolare personaggio:parlamentare,politico,uomo di cultura, appassionato studioso del mezzogiorno.

Purtroppo il primissimo connesso alla figura di G. Fortunato non è affatto vago. E' preciso, ma sgradevole,imbarazzante per me, a faticosi ripensamenti. Niente di drammatico,per carità. Si tratta solo di questo.

Siamo negli ultimi anni del fascismo: sarà il 1939, sarà il 1940. Siamo nella piazza del paese. Non stiamo pensando a don Giustino ( che eramorto a Napoli , nel 1932)- Siamo ragazzi, bambini, adolescenti e stiamo giocando a palla, naturalmente trepidando al pensiero della guardia comunale che tra un po' si presenterà implacabile , per cacciarci via, minacciandoci. Quando passa per la piazza, e nella piazza si ferma, un'automobile. E che automobile. Snella, elegantissima, forse persino- se la memoria non inganna- decapottabile. Sarà stata la terza, la quarta macchina che vedevamo in vita nostra. Ne discendono due turisti che si avvicinano e domandano: Ragazzi, cosa c'è da vedere in questo paese?. I ragazzi – bambini adolescenti che eravamo- si fermano, imbarazzati. Ci consultammo. Chiedemmo che venisse ripetuta la domanda: Ma si, non c'è qualche chiesa, qualche monumento, qualche palazzo che valga la pena di una sosta?. Sempre più intimiditi, ci consultammo ancora a bassa voce. Trovammo un accordo. Demmo incarico ad uno di noi ( spero non sia toccato a me) di rispondere. Abbozzammo: Si c'è il campo sportivo, appena fuori del paese. Con un'irritata alzata di spalle , con una sbuffata di fastidio, ed un vistoso sbuffo di fumo da tubo di scappamento dell'automobile, i due delusi turisti si allontanarono.

Ci ho pensato più di una volta negli anni successivi. Cercando di trovare una qualche giustificazione alla nostra cattiva figura.. Alla nostra mancanza di prontezza nel rispondere. Perchè nel mio paese -non fo per dire- qualche bella chiesa decorosamente vecchia , qualche fontana 8 se non è stata ne frattempo distrutta, nell'ansia di modernizzare), qualche bel palazzo spagnolesco ce l'aveva. Ce l'ha.

E noi altri ragazzi-piccoli medi e grandi- stavamo giocando a palla proprio davanti al palazzo di famiglia di don Giustino . Che un suo carattere monumentale ce l'ha. Che ha, anche , al suo interno, un bellissimo giardino. E non ci era venuto in mente! Colpa nostra, mi dico. Così piccoli e già così ignoranti. Poi mi racconto: un po' di colpa devono avercela avuta pure i nostri maestri di scuola. Che diavolo ci insegnavano? Poi, ricordando quanto erano materne e protettive le nostre maestre, quanto erano scontrosi ma affettuosi i nostri temutissimi maestri, mi dico che non è giusto pensarla così.

Del resto, se anche ci fosse venuto in mente di indicare a quei turisti il Palazzo Fortunato come avremmo dovuto presentarlo? Come avremmo dovuto e potuto presentare lui, don Giustino ? Come un antifascista inflessibile, innanzitutto. Era stato lui a capire e a dire per primo, che il Fascismo non era-come pretendeva-una rivoluzione, bensì una rivelazione di quanto c'è di peggio nel nostro temperamento: nazionale e locale. Prima di tutto il facilismo, che Fortunato dal profondo del cuore detestava. Ma i due signori del Nord, così ben vestiti e bene equipaggiati forse erano fascisti anche loro. Difficilmente avrebbero potuto apprezzare la nostra presentazione del personaggio. Avremmo potuto aggiungere che G. Fortunato era un aristocratico signore di famiglia borbonica, ricca di terre. I due turisti, se la pensavano come noi pensavamo, avrebbero commentato: Grazie tante, con tutti quei possedimenti, ci si può anche permettere il lusso di fare dell'antifascismo. Avremmo precisato, allora,che don Giustino non si limitava a possederle, quelle sue terre. Le amava intensamente. Le coltivava assiduamente, investendovi tutta la sua sapienza tecnica di cui lui e suo fratello Ernesto disponevano.

Amava le sue terre, amava la sua terra: il Mezzogiorno. Che usava visitare ed esplorare non in automobile, frettolosamente, ma a piedi: Per 25 anni, nelle Estate, io percorsi tutta l'Italia Meridionale, tutta pedestramente, dal Gran Sasso all'Aspromonte.

La conosceva zolla per zolla la sua terra. La conosceva zolla per zolla, la sua Valle di Vitalba. La conosceva , e non si faceva nessuna illusione. Malgrado il sole, malgrado il mare, non era affatto un'isola felice, come raccontano i viaggiatori romantici. Meno che mai una terra dell'Eden. Meno che mai una propaggine fortunata della Magna Grecia. Altro che Magna Grecia diceva. La famigerata Magna Grecia non visse più di 25 anni e non lascio di sé se non la colonna di Metaponto e i templi di Pesto.

Il Mezzogiorno ripeteva, è uno sfasciume geologico, pendulo fra due mari. Questo pessimismo, riversato poi in vari scritti...questo pessimismo stoico lo poneva in contrasto con Benedetto Croce, suo amico di una vita. Che per essere coerente idealista non credeva in nessun tipo di determinismo. Meno che mai nel determinismo agronomico di Fortunato:fatto di snetiri percorsi, di torrenti attraversati, di zolle sgretolate con le mani ed analizzate davvicino: che cosa ci si può piantare? Che reddito possono dare?

Quando Benedetto Croce gli diceva: Non ho conosciuto altri più negato di voi all'astrazione, egli per lettera agli amici commentava Io,lo giuro, ne godei.

Pessimista e quindi rinunciatario? No, tutt'altro. Pessimista e quindi nient'affatto rinunciatario.

Le cose che si potevano fare bisognava farle. E diede una buona mano a farle, nella sua carriera di parlamentare: paziente e operosa, come il lavoro di un contadino.

A proposito. Da parlamentare aveva diritto al permanente, a viaggiare gratis sui treni. Si racconta in paese che lui quel permanente usava infilarlo nella tesa del cappello, bene in vista.Una volta salito in treno tirava fuori dalla tasca il biglietto, che si era comprato con i suoi soldi. Non sono uno approfitta della sua posizione.

Mi vedo nuovamente davanti i 2 turisti che si fermarono nella piazza del paese quel giorno. So quel che direbbero: E certo,quando si è così benestanti , ci si può permettere anche di questi gesti. Noi abbiamo avuto modo di conoscere e di vedere nel frattempo tante persone assai più benestanti di G. Fortunato che non si accontentano mai di niente. Quando hanno, dallo Stato o dalla sorte, un qualche privilegio, pensano subito a moltiplicarlo. Per cento, per duecento, per mille. Niente a che vedere con il pessimismo operoso, studioso, dignitosissimo di don Giustino.

Di Beniamino Placido

su gentile richiesta del sig. Mario Faggella professore di mio fratello Nicolino

lunedì 17 ottobre 2011

Così per dire....

Chi se ne respiace re' la carn' re' glie àut', la ssoije' se' la màngene' i cane'....

sabato 8 ottobre 2011

Signorotti di Rionero (2)

Quanto ai Giannattasio, erano bravi e soliti imbottigliare sontusi rossi, i vetri spessi e scuri come le loro cantine dove nei decenni si patinavano di una polvere grigiasta e solida;magari ricorrevano anche al degorgement, educati come erano allo spirito, dei vini, francesi; ma sembravano imbottigliare sibi suisque, da regalo per sè e per pochi intimi. L'atrio e i seminterrati del seicentesco palazzo Giannattasio erano pieni di carri, calessi, landau, cavezze imbottite di canapa, lame e coltelli trinciaforaggi, cesoie da potatura, guanti in ferro, ferri per i cavalli, campanacci; e sapevano di giare, olle, bordolesi, damigiane, ventilatori, irroratori, spandizolfo. Ma l'aria che si respiarava al primo piano, nell'ufficio sulla corte, fra il vecchio Giannattasio e l'amministratore don Attilio, sapeva di altro. "Buongiorno, don Peppino" , Buongiorno, don Attilio"." Ci sono novità?" " Nessuna novità". E don Attilio gli passava la copia del Giornale d'Italia. fresca di edicola.
Dopo avere controllato l'orario (le otto del mattino, senza sgarro) don Attilio estraendo dal taschino del gilet la sua enorme cipolla cui proprio allora dava la carica giornaliera, e don Peppino sogguardando il pendolo enorme dell'ufficio, fra le due scrivanie di fronte, il silenzio era solcato solo dal fruscio del giornale di don Peppino, immerso in ripetute letture delle stesse pagine, e dallo scricchiolio del pennino a cavallotta, su conti inconsistenti, di don Attilio. Al rimbombo dilagante delle campane della Chiesa dei Morti, che sommergeva i precisi dodici tocchi del pendolo nell'ufficio, si ropmeva quella tesa vigilia. " E' ora di pranzo, don Peppino". " Buon appetito, don Attilio". E in silenzio, ciascuno recuperava il poco del suo: il giornale gualcito,qualche fattura strapazzata, un chiavetto dal mazzo, per guardare lesto l'uscita, verso l'interno della sala da pranzo, o verso l'esterno del grande portone sbarrato.

tratto da Rionero storie sparse e disperse

mercoledì 5 ottobre 2011

I Signorotti di Rionero

I Pierro, però, sono ricordati, se non chè per i capricci di un figlio: il foglio di don Benedetto, sinonimo a Rionero di ogni possibile vizio bambinesco, I cui capricci, fantasiosi e inesauribili, si fermarono un giorno, solo, dinanzia alla rude minaccia di rappresaglia del guardiano delle vigne che, intravisto a culo scoperto fra i pampini a sgravarsi la pancia, sollecitò il figlio di don Benedetto a chiedere al padre se potesse sparargli, con il botte, lì , su quel nudo biancore.
" Posso sparare al guardiano?" E il Padre: " Spara, spara, figlio mio".
- Oppure per i lamenti di altro componente della famiglia che, a Natale, nonostante la dovizia apparecchiata di anquilla, capitoni, alici, sgombri, seppie, seppioline, triglie, calamari: in umido fritti, in bianco , al forno; mancando una nonnata o un' orata, soleva uscirsene sempre in un doloroso sospiro: "E che Natale è mai questo!".

tratto da Rionero Storie sparse e disperse N. Calice