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venerdì 27 giugno 2014

Lettera di G. Fortunato a Francesco Torraca



Credo che vincerò. Il mio nome è concordia; il mio povero nome ha
fatto cessare ogni bizza fra Rionero e Atella, fra Rionero e Barile, fra
Rionero e Rapolla. Che voluttà a fare il bene! Senti, non so come la commozione
non m'abbia strozzato. Un bel giorno venne qui una commissione
di barilesi; stamani uno stuolo di rapollesi. Non puoi credere che
impressione morale ha prodotto la loro apparizione in Rionero. Quante
bizze cessate, quanti malumori finiti! [...] Il guaio è che la probabilità
della riuscita non mi fa dormire la notte. E chi reggerà al peso di sì grossa
responsabilità? L'altra sera, da solo, per poco non mi venne da piangere.
Vorrei avere cinquanta, cento milioni. Vorrei vederli tutti, i miei comprovinciali,
ricchi e onesti. [...]
Se vinco, il 18 sarò solo a Melfi, e già penso a quel che devo dire.
Vedrai. Oramai provo troppo grandi soddisfazioni a battere la strada
maestra della verità. Sarò esplicito: giù Crispi e Nicotera! E che merito ho
io a rappresentare una parte così bella, così alta? Io sono annichilito.
L'ambiente è troppo elevato per me, troppo alto l'onore. Quest'oggi, su
l'imbrunire, presso una fontanina a' piedi del Vulture, io pensavo con
soddisfazione vivissima al momento in cui potrò dire a' miei paesani: la
vita politica non è per me, non ci reggo; abbandono il Parlamento, ma
vengo qui, fra voi, a vivere i miei anni, per morire prima o poi fra le
benedizioni vostre. E il sole che cadeva, pareva dirmi: tutto passa, vieni
qua, fa il bene sul serio! Che poesia! Ma già, vaneggio