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lunedì 18 gennaio 2010

...In un solo paese(di Beniamino Placido)

Quasi un racconto dell'estate:
fascisti, antifascisti e una polemica
...In un solo paese(di Beniamino Placido)
In Via del tutto eccezionale, é stato concesso anche a me di scrivere un "racconto dell'estate". In via del tutto eccezionale: a patto che non abbia pretese, e serva a qualcosa. Pretese: nessuna. Tenterò solo di ricostruire, affidandomi alla memoria, la sola cosa che so bene sul Fascismo: e speriamo cha a qualcosa serva. In un precedente articolo scritto in occasione del 25 luglio, mi sono permesso di affermare che (salvo poche e luminose eccezioni) il fascismo noi italiani ce lo siamo voluto e tenuto. Apriti cielo! Non é vero. Non si deve pensare. Non si deve dire. E chi lo dice... così mi é stato risposto da più parti: e con particolare energia da Michele Tito (Corriere della Sera sabato 30 luglio).Permettetemi di insistere. Forse non so, non capisco cos'é stato il Fascismo per il nostro Paese ma credo di sapere cos'é stato il Fascismo in un solo paese: in quel paesino del Mezzogiorno dove sono nato e cresciuto. A Rionero in Vulture, in provincia di Potenza, il Fascismo é stato una lunga fastidiosa sonnolenza, interrotta da un brusco risveglio alla fine. Sì, c'era il Fascismo, con le divise le parate le adunate. E c'erano gli antifascisti ma quanti erano? Erano tre, o quattro o forse cinque. Erano così pochi, e così "strani" che me li ricordo per nome e cognome. Il maestro elementare Michele Preziuso, l'ingegnere Giuseppe Catenacci, don Nicola Pantaleo, piccolo possidente terriero e "Mastro" Raffaele Di Lonardo, muratore capomastro. Vorrei rendere omaggio (non é tardi: non é mai tardi) alla fermezza di questi uomini generosi. Esse ebbero il coraggio di sopportare per vent'anni non solo il fascismo, e le parate, e le adunate ma anche l'indifferenza condiscendente della popolazione. Perché al contrario di quanto si legge (così mi dicono) in qualche libro di scuola, gli antifascisti non erano considerati dei personaggi eroici che un giorno avrebbero capitanato la riscossa. Erano visti come personaggi rispettabili sì, ma un pò strani, un pò bizzarri. Cosa volete? Sono antifascisti.Nel mio paese erano quattro, o cinque o dieci. E siccome ho ragione di ritenere che il mio paese non é da meno degli altri, m'immagino che questa fosse la proporzione, un pò dappertutto. Credo davvero che l'Italia di allora fosse, (assai più di quanto non lo sia oggi) la somma di tanti paesini come il mio. Si tratta allora di stabilire, magari con l'aiuto di raffinati metodi di elaborazione statistica, se dieci antifascisti su diecimila abitanti rappresentino una percentuale alta o media o bassa. purtroppo é un tipo di calcolo che non so fare.
Il palazzo di don Giustino
Consentitemi allora di concentrarmi sul "campione", e di dire che l'assunzione a "campione" del mio paese è più che opportuna. Perchè il mio paesino (mi sia consentito dirlo con leggittimo affettuoso orgoglio) non un paese come tutti gli altri. A qualcosa in più di tanti altri. E' ricco di vivacità e di dignità operosa. Non proprio industriale, ma certamente industrioso, ha un' economia che vive sopratutto della raccolta, dello smercio, della lavorazione industriale delle uve (figuriamo a questo proposito anche in un racconto dì Piero Chiara).E in più di tanti altri paesini meno fortunati aveva a quel tempo due illustri esempi di antifascismo in casa. A pochi passi di distanza da Rionero era nato, e veniva ininterrottamente eletto al Parlamento Francesco Saverio Nitti, un osso duro per il Regime ("Don Ciccio Saverio Nitti, preparati la fossa se vengono i fascisti ti romperanno l'ossa"); uno degli antifascisti veri, che preferì l'esilio al Fascismo.Poi, proprio nel mezzo del paese c'è un palazzo bellisssimo, che l'ultimo terremoto ha purtroppo toccato: il palazzo di Giustino Fortunato. Don Giustino è uno dei pochi italiani che al Fascismo non ha creduto mai, che anzi ne ha avvertito subito la drammatica pericolosità ("questi non vi lasceranno nemmeno gli occhi per piangere").Era un uomo di altissimo e meritatissimo prestigio.Ancora a me da bambino veniva raccontato che quando andava a Roma a fare il suo mestiere di parlamentare, don Giustino infilava il biglietto appena comprato alla stazione nella testa del cappello. Per dire: io non approfitto del tesserino di deputato. Io il biglietto ferroviario me lo pago da me. Che sarà pure un gesto retorico, d'accordo: però ci sono delle retoriche peggiori. Nel 1929, l'anno in cui sono nato io, ci fu un terribile terremoto. Il palazzo di don Giustino si aprì per ospitare quelli che erano rimasti senza un tetto.Ci si potrebbe aspettare che questa presenza, che questo esempio generasse e conservasse un ricco filone di antifascismo. Non fu così. Non mi risulta. Non me ne ricordo. Il paese ebbe il merito di custodire fino alla fine il suo affettuoso rispetto per don Giustino, malgrado il Fascismo. Non ebbe la forza di seguirne l'esempio, contro il fascismo. Come molti altri paesi. Come tutto Il Paese.Si dirà (so già chi lo dirà): grazie tante! Questo era l'antifascismo sterile dei borghesi.Anzi, di personaggi alto borghesi che poteva permettersi il lusso di pagarsi il viaggio in treno per assolvere al mandato parlamentare. Che influenza poteva esercitare? Non avevano un interesse " di classe" contro il Fascismo. La classe lavoratrice, invece ..... Si dà il caso (giustappunto) che tutti i miei parenti di parte paterna siano contadini. Lavoratrici e lavoratori della terra, tutti. Mietitori a giornata nel Tavoliere delle Puglie, vendemmiatori, raccoglitori e raccoglitrici di olive. Vorrei poter dire che nelle lunghi notti d' inverno mi parlavano del Fascismo e delle sue malefatte, di oppressione e di rivolta. Vorrei, ma non posso. Del Fascismo non parlavano mai. Al Fascismo opponevano una loro cauta, silenziosa diffidenza. Però il loro atteggiamento mi ha insegnato una cosa molto importante, che mi è tornata assai utile quando ho dovuto studiare la storia dei negri d' America e capire perchè non si erano scatenati in quelle quotidiane rivolte che gli storici di sinistra americani degli Anni "60" pretendevano ansiosamente da loro. Mi hanno insegnato che i lavoratori veri (siano raccoglitori di cotone in Albama o raccoglitri di olive in Lucania) non si sentono affatto tenuti ad esibirsi in gladiatorie rivolte per soddisfare il sinistrismo voyeuristico e vicario dei professori di New York, dei professorini di Roma. Il loro destino (di per sè duro)non li obbliga a tanto. Hanno un'altro problema da risolvere. Il problema di sopravvivere. E a quello dignitosamente si dedicano.Mia madre invece non viene da famiglia contadina. E' figlia di un maestro elementare. E' di estrazione borghese. E mio padre si era elevato, sudando, dalla condizione contadina a quella più confortevole di piccolo piccolissimo borghese. A mia madre, a mio padre devo (e porto) un affetto, una riconoscenza senza fine. Percià quello che sto per dire mi è molto doloroso. Ma è anche doveroso. L'abbiamo fatta tanto lunga con i poveri adolescenti tedeschi del dopo guerra che chiedeva ai genitori: papà, mamma, perchè non ci avete detto nulla dei campi di concentramento? Tanto lunga. Perchè è molto più comodo prendersela con un altro popolo e giudicarlo tutto " nazista" : così, all'ingrosso.Eppure dovremmo saperlo che quando Hitler apriva un nuovo campo di concentramento non è che ne desse l'annuncio per radio. Eppure dovremmo saperlo che la mappa dei "lager" non si vendeva dal tabaccaio nella Germania hitleriana; non propriamente. Quindi potremmo anche immaginarci che qualche genitore tedesco che davvero non sappesse nulla dei campi di concentramento probabilmente c'era. Molto, molto più difficile immaginare che qualcuno dei nostri genitori non sapesse nulla del fascismo, di come era arrivato, e perchè. Eppure, quando (fatti più grandicelli, e insoddistatti delle spiegazioni della scuola) ponevamo quelle domande, i nostri padri le nostre madri giravano gli occhi da un'altra parte. O rispondevano affrettatamente: c'era del disordine, c'erano tanti scioperi....Mio padre e mia madre, l'ho ricostruito proprio in quei giorni, si sono sposati nel1922. Hanno fatto il loro viaggio di nozze a Roma pressappoco nei giorni della Marcia su Roma. Ma non hanno mai visto un fascista, mai incontrato uno squadrista, niente. O almeno, a me non l'hanno mai detto. non sarei mai riuscito a parlare di questo particolare, forse non l'avrei nemmeno notato, se proprio in occasione delle recenti polemiche sul fascismo non mi fossero pervenute delle testimonianze preziose.
Professori saccenti
Tutte in questo senso. E tante. Perchè si comportavano così i nostri genitori? Forse perchè erano segretamente fascisti? Ma no. Perchè si sentivano segretamente in colpa. Sentivano di aver fatto una sciocchezza. Sapevano di averli lasciati passare loro, quei manigoldi con la camicia nera e il manganello. Di aver chiuso gli occhi, pensando: passeranno, metteranno un pò di ordine, poi se ne andranno via e adesso dovevano tenerseli sul groppone.Di queste cose era fatto il rapporto del mio paese, del nostro Paese con il Fascismo. Serve ricordarle onestamente? Forse si, se si vuole evitare che si ripetano. Ma su queste cose abbiamo poco pensato e molto condannato. Effettivamente non è facile riflettere sul Fascismo se ad ogni passo si incontra l'obiezione: ah, sì, tu non ti limiti a condannare il Fascismo, tu vuoi anche ragionarci sopra? Allora sei un pò fascista anche tu. Al mio paese, che è un paese colto, questa obiezione viene presa per quello che è: una manifestazione di mentalità primitiva fra la magia simpatica e la fallacia metonimica: tu studi il cancro? Quindi hai il cancro anche tu. Al mio paese, che è un paese molto colto, tutti conoscono a memoria quella pagina manzoniana (I Promessi Sposi capitolo XXXI) in cui si racconta di come la folla milanese dava la colpa della peste a quei pochi medici che ne denunciavano l'esistenza e volevano contrastarla, studiandola...Che questa obiezione sia stata formulata da qualche trombone attardato, da qualche professorino saccente, passi. Che l'abbia insinuata anche un giornalista grande e grosso come Michele Tito è più preoccupante; diciamo:...però di fronte alla povertà ripetitiva di certi sragionamenti Michele Tito mi consenta di dire: che barba!
tratto da: la Repubblicadomenica 28/lunedi 29 agosto 1983

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